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Dalí: rivoluzione e tradizione, anche a tavola
(Agen Food) – Roma, 24 ott. – di Massimiliano Cinque – Da qualche giorno, nelle sale di Palazzo Cipolla, all’interno del polo museale del Museo del Corso, ha preso il via un’esposizione che merita davvero di essere chiamata evento: la mostra “Dalí. Rivoluzione e Tradizione”, visitabile fino al 1° febbraio 2026.
Sotto la direzione scientifica di Montse Aguer e la curatela di Carme Ruiz González e Lucia Moni, la rassegna — promossa dalla Fondazione Roma in collaborazione con la Fundació Gala-Salvador Dalí e il supporto organizzativo di MondoMostre — raccoglie oltre sessanta opere tra quadri, fotografie, appunti e schizzi preparatori. Un percorso che permette al visitatore di immergersi nel laboratorio visionario di un artista che ha saputo sconvolgere, reinventare e sublimare il reale.
La mostra parte dalla giovinezza del pittore catalano, dal suo iniziale dialogo-duello con Picasso, fino allo studio della sezione aurea, dei girasoli e del corno del rinoceronte — simboli di quell’ossessione per la forma perfetta che attraversa tutta la sua opera. Si arriva poi al Dalí maturo, quello che guarda a una triade sacra della pittura occidentale: Velázquez, Vermeer e Raffaello. E proprio grazie al prestito degli Uffizi, è possibile ammirare il ritratto giovanile di Raffaello, in un dialogo serrato e quasi speculare con l’autoritratto di Dalì.
Eppure, mentre percorrevo i corridoi della mostra, perdendomi nei dettagli delle sue tele e nei suoi deliri geometrici, la mente è corsa altrove — a due libri che, più di altri, raccontano un Dalí intimo e sorprendente: Les Dîners de Gala (1973) e Les Vins de Gala (1977).
Il primo, Les Dîners de Gala, è un ricettario surrealista in tutto e per tutto: 136 ricette provenienti dai più celebri ristoranti francesi dell’epoca — La Tour d’Argent, Maxim’s, Le Train Bleu — accompagnate da illustrazioni, collage e fotografie create o supervisionate dall’artista stesso.
Il cibo, nelle sue mani, si trasforma in un linguaggio onirico e sensuale, dove la cucina è una forma di pittura e la tavola un palcoscenico. Si potrebbe pensare che “de Gala” si riferisca a sontuosi ricevimenti, ma in realtà — come precisa Dalí — le ricette sono dedicate a Gala, la sua musa e sposa. “Les dîners de Gala ne sont pas destinés aux végétariens…” scrive lui stesso, “sono ricette singolarmente voluttuose, tutte dedicate al piacere del gusto.”
Il volume è diviso in dodici capitoli, come un vero ciclo zodiacale del piacere, e tra una ricetta e l’altra compaiono riflessioni che rivelano l’intima filosofia dell’artista: “La mandibola è il migliore strumento di conoscenza filosofica.” Il cibo, dunque, non è solo nutrimento ma rivelazione — e, come in ogni rito rivelatorio, non può mancare l’eccesso.
Celebre, in questo senso, è il Casanova Cocktail, un intruglio afrodisiaco a base di tuorli d’uovo, pepe, tabasco, zucchero di canna, brandy e cacao. Dalí scrive che “ne beveva una tazza prima di ogni incontro amoroso”. È un brindisi al desiderio, ma anche una metafora: per Dalí, la gola e l’erotismo sono le due vie più sincere alla conoscenza dell’uomo.
Quattro anni più tardi, con Les Vins de Gala, Dalí compie un gesto ancora più radicale: sovverte l’enologia. Non ordina i vini per regione o vitigno, ma per “energia emotiva”. Nasce così una classificazione poetica e sensoriale che va dai “vini della gioia” ai “vini della luce”, dai “vini dell’amore” ai “vini della rivolta”. Il vino, per Dalí, non è da degustare ma da sentire, scrutare, vivere. È un ponte tra labbra e universo, tra corpo e spirito. Una sostanza sacra, quasi liturgica, in cui l’ebbrezza diventa rivelazione.
Le illustrazioni del libro sono un’orgia di simboli: nudi che si trasformano in brocche, grappoli che diventano teste, calici che si sciolgono come orologi molli. “Il vino,” scrive, “è una sostanza alchemica: trasforma la materia in sogno e il sogno in realtà.” E così ogni vino si carica di un’anima: gli Champagne e i Crémant sono i vini della gioia — “le bollicine sono le risate liquide del vino”; i vini del Jura, i Tokay, e i vini ossidativi e misteriosi sono i vini della paura — “quelli che guardano dentro di te.” In questo universo, il Bordeaux diventa vino della saggezza, il Sauternes vino dell’amore, e i vini catalani — inevitabilmente — appartengono ai vini di Gala, i supremi, quelli dedicati alla donna-dea che ha trasformato la vita di Dalí in un rito di piacere.
Dalí amava dire che chi calcola le calorie non può comprendere la felicità: “Se siete uno di quelli che trasformano le gioie del cibo in una forma di penitenza, chiudete subito questo libro: è troppo vivace, troppo aggressivo e troppo impertinente per voi.” Il gusto, per lui, era un modo di guardare il mondo. Non solo il piacere di mangiare o bere, ma l’esperienza di conoscere attraverso i sensi: un viaggio nella quarta dimensione, quella dove la forma si scioglie e tutto diventa possibile.
E così, uscendo da Palazzo Cipolla, dopo aver attraversato orologi molli, rinoceronti dorati e angeli sospesi, la tentazione è di tornare a casa, aprire una bottiglia e cucinare qualcosa di folle. Perché Dalì ci insegna che la tavola è il primo museo dell’anima, e che tra un sorso e un boccone si può ancora incontrare il genio che vedeva il sogno anche in una tazza di cacao.
