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Disturbi Alimentari, il dott. Erzegovesi dopo la campagna voluta da Ambra Angiolini con Animenta e Danone spiega queste malattie che uccidono i nostri giovani

(Agen Food) – Milano, 07 feb. – di Olga Iembo – Prosegue senza sosta l’impegno di Ambra Angiolini, con la collaborazione di Animenta e il contributo di Danone, contro il grave fenomeno dei Disturbi Alimentari. Patologie estremamente serie e sempre più diffuse, che in Italia affliggono oltre 3 milioni di persone, soprattutto i giovani fra i quali le conseguenze fanno raggiungere numeri agghiaccianti considerato che nel 2023 fra gli adolescenti sono state la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali (fonte registo ReNcaM – Registro Nominativo Cause Morte).

Lo scorso anno, in occasione della Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla (15 marzo) dedicata alla sensibilizzazione e al contrasto dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), è stato avviato il progetto “Laboratori dell’Anima”, ideati e realizzati da Ambra e Aurora Caporossi, presidente e founder di Animenta, con il supporto di Danone Italia col suo brand Nutricia Fortini, per offrire a chi era già in cura o in attesa di esserlo la possibilità di prendere parte a 8 laboratori di creatività, teatro e di scrittura. A novembre, poi, è stata presentata la campagna “Non è il cibo il mio disturbo alimentare” pensata e diretta da Ambra con la collaborazione di Animenta e Jolanda Renga, anch’essa realizzata con il contributo di Danone.

Oggi, dopo un precedente approfondimento con la stessa Caporossi e con Fabrizio Gavelli (https://www.agenfood.it/interviste/disturbi-alimentari-3-milioni-di-malati-analisi-e-azioni-di-animenta-e-danone/), presidente e amministratore delegato di Danone Italia & Grecia, Agen Food torna sul delicato tema dei DA con Stefano Erzegovesi, psichiatra, nutrizionista e divulgatore scientifico, intervenuto alla presentazione della campagna “Non è il cibo il mio disturbo alimentare”.

Dottor Erzegovesi, i DA esistono da sempre, eppure non tutti sanno bene di cosa si tratti, ci spiega cosa si intende per Disturbi del comportamento alimentare e quali conseguenze hanno?

“I principali Disturbi del Comportamento alimentare sono tre: anoressia nervosa (AN), bulimia nervosa (BN) e disturbo da binge eating (BED). La parola chiave dell’anoressia nervosa è ‘controllo’. Le persone che ne soffrono vivono un’intensa, dominante e ossessiva paura di perdere il controllo sul proprio peso e sull’alimentazione. Questo si traduce in un’angoscia per l’idea di ingrassare e in un incessante inseguimento della magrezza, che però non è mai sufficiente a soddisfare la tranquillità del paziente. Un altro aspetto fondamentale di questa patologia è la dispercezione dell’immagine corporea: anche in presenza di una magrezza estrema, queste persone si percepiscono come grasse, o addirittura enormi. È difficile immaginare la sofferenza legata a una condizione così complessa, in cui la consapevolezza del proprio stato è spesso distorta. Chi soffre di anoressia non sta ‘facendo capricci’, ma è fermamente convinto di avere un corpo fuori controllo e vive nel terrore di non riuscire a gestirlo. L’anoressia è un disturbo di elevata complessità e alta mortalità, spesso associato a un grave ritardo nella richiesta d’aiuto proprio per la scarsa consapevolezza della malattia. La combinazione di grave deperimento fisico e compromissione mentale rende questa condizione estremamente pericolosa, soprattutto per giovani in apparente buona salute. Le conseguenze dell’anoressia sono sia fisiche sia psichiche. Sul piano fisico, il digiuno prolungato compromette organi vitali come cuore, fegato e reni. Sul piano psichico, il deperimento cronico può causare ideazioni ossessive, sbalzi d’umore con prevalenza depressiva e un elevato rischio suicidario. Questo rende l’anoressia nervosa il DCA con la più alta mortalità: circa il 10% delle persone colpite da anoressia muore e, all’interno di questo 10%, la metà muore per complicanze fisiche, come problemi cardiaci, mentre l’altra metà per suicidio. Per la bulimia nervosa, la parola chiave è ‘perdita di controllo’. Alla base della patologia c’è un pensiero simile a quello anoressico, legato al desiderio di magrezza e al controllo rigido sull’alimentazione. Tuttavia, mentre nell’anoressia il controllo è costante, nella bulimia questo equilibrio si alterna a momenti di totale perdita di controllo, che portano alle abbuffate. È importante chiarire che un’abbuffata non equivale a una mangiata conviviale. Si tratta invece di un comportamento compulsivo, doloroso e privo di piacere, caratterizzato dall’assunzione vorace e incontrollata di grandi quantità di cibo. Una persona può iniziare con un biscotto e finire per consumare l’intera confezione, sentendosi incapace di fermarsi. Accanto alle abbuffate, la bulimia è caratterizzata da comportamenti di compenso, messi in atto per neutralizzare l’eccessivo apporto calorico. Tra questi troviamo: comportamenti eliminatori, come vomito autoindotto, abuso di lassativi o diuretici; comportamenti non eliminatori, come eccessiva attività fisica o digiuni durante i pasti successivi alle abbuffate. Poiché le persone bulimiche hanno spesso un peso corporeo normale, il disturbo può passare inosservato, guadagnandosi il nome di “epidemia nascosta”. Questo silenzio, alimentato da vergogna e sensi di colpa, può portare chi ne soffre a non chiedere aiuto per anni. Le conseguenze della bulimia sono legate ai comportamenti di compenso: il vomito può provocare gravi squilibri elettrolitici, con rischio di aritmie cardiache, danneggiamento dello smalto dentale e reflusso gastroesofageo. L’abuso di lassativi e diuretici, invece, può causare insufficienza renale e problemi gastrointestinali. Il disturbo da binge eating (BED), invece, condivide con la bulimia la perdita di controllo durante le abbuffate, ma si differenzia per l’assenza di comportamenti di compenso. Chi soffre di BED tende quindi ad accumulare peso, fino a sviluppare sovrappeso o obesità. Questo disturbo colpisce principalmente persone più adulte rispetto ad anoressia e bulimia, con un’età media di 35-45 anni, ed è caratterizzato da un rapporto più equilibrato tra i sessi (circa 3 donne ogni 2 uomini). Le conseguenze del BED sono legate al sovrappeso e all’obesità: problemi articolari dovuti al carico eccessivo, patologie cardiovascolari legate all’ipertensione, ipercolesterolemia, diabete e una maggiore incidenza di tumori correlati all’obesità”.

Si è compreso – e la campagna “Non è il cibo il mio disturbo alimentare” lo chiarisce una volta di più – che queste patologie hanno una genesi “mentale”, emotiva, affettiva ecc, non sempre immediatamente identificabile. È dunque possibile soffrire di questi disturbi e non rendersene conto? Quali sono i segnali che rappresentano il campanello d’allarme? 

“I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), come anoressia nervosa e bulimia nervosa, hanno una componente mentale fondamentale. Non si tratta semplicemente di mangiare poco o abbuffarsi, né di questioni legate all’appetito o alla disponibilità di cibo. Alla base di questi disturbi vi sono problematiche psicologiche che possono avere diverse origini: bassa autostima, difficoltà nella regolazione emotiva, perfezionismo eccessivo o traumi personali, come abusi fisici, sessuali o trascuratezza emotiva. Ognuno di questi fattori rappresenta un possibile rischio per lo sviluppo di un DCA. La componente mentale non solo determina l’insorgenza del disturbo, ma contribuisce al suo mantenimento. Prendiamo l’esempio dell’anoressia: i pensieri ossessivi legati al controllo di cibo e peso portano a una restrizione alimentare e alla perdita di peso. Questo, a sua volta, influisce negativamente sul funzionamento cerebrale, aggravando ulteriormente le ossessioni. Si innesca così un circolo vizioso, in cui mente e corpo si influenzano reciprocamente, portando a un progressivo peggioramento del disturbo se non viene trattato tempestivamente. È fondamentale riconoscere i segnali d’allarme. Per l’anoressia nervosa: il cervello, sensibile al deperimento, è uno dei primi organi a manifestare cambiamenti. Tra i segnali più evidenti troviamo le alterazioni caratteriali e comportamentali: persone prima solari e socievoli diventano irritabili, nervose, soggette a rabbia o pianto, con difficoltà di concentrazione. Perdita di convivialità a tavola: chi soffre di anoressia si mostra taciturno, concentrato o infastidito durante i pasti. Ossessioni sull’immagine corporea: frequenti controlli allo specchio, richieste di rassicurazioni su parti del corpo percepite come ‘grasse’ e cambiamenti nell’abbigliamento per coprire il corpo. La bulimia è definita una ‘patologia nascosta’, con segnali spesso sfumati, riconoscibili per delle caratteristiche fisiche apparentemente slegate da una patologia mentale, come comportamenti post-pasto sospetti: ad esempio fughe rapide in bagno per vomitare. Segni fisici indiretti: erosione dello smalto dentale, spesso rilevata dai dentisti, tipica del vomito autoindotto. Abbuffate e compensi nascosti: chi ne soffre tende a mangiare normalmente in pubblico, nascondendo sia le abbuffate sia i comportamenti compensatori, come vomito, uso di lassativi o diuretici ed esercizio fisico eccessivo. Nel disturbo da binge eating, il campanello d’allarme è il consumo eccessivo di cibo legato all’emotività. Spesso è difficile da individuare perché chi ne soffre tende a nascondere il problema per vergogna, usando un’autoironia mascherante: ‘sono solo un buongustaio’, ‘amo il cibo’. Tuttavia, i segnali includono: episodi di alimentazione incontrollata, con consumo di grandi quantità di cibo in breve tempo. Continua ricerca di cibo durante la giornata, accompagnata dalla sensazione di perdita di controllo”.

Come comportarsi quando ci si rende conto che il proprio stato psicologico incide in maniera significativa sui comportamenti alimentari propri o dei propri cari? 

“È importante fare una premessa: tutti noi, in certi momenti, possiamo manifestare un’alimentazione emotiva, ovvero regolare il nostro rapporto con il cibo in base a stati d’animo. Tuttavia, questo non significa necessariamente soffrire di un disturbo alimentare. La parola chiave, in questo contesto, è ‘persistenza’. È cruciale distinguere tra episodi isolati e comportamenti che, giorno dopo giorno, si consolidano in schemi ripetitivi e duraturi. Ad esempio, gli adolescenti, per la loro naturale instabilità emotiva, possono vivere oscillazioni nel rapporto con il cibo. Ma quando questi cambiamenti diventano graduali e persistenti – come mangiare sempre meno o modificare il proprio carattere diventando più irritabili o tristi – è un segnale che non va ignorato. Come comportarsi in questi casi? La prima cosa da fare è instaurare una comunicazione diretta e non giudicante con la persona che potrebbe soffrire di un disturbo alimentare. Per favorire un dialogo, è utile iniziare le frasi con ‘io’ anziché ‘tu’. Evitate frasi come ‘tu sei troppo magra’, ‘tu mangi poco’, ‘tu hai un brutto carattere’ o ‘tu hai qualcosa che non va’. Al contrario, utilizzate affermazioni come ‘io ho notato qualcosa che mi fa pensare che tu non stia bene come prima’ o ‘io vedo che c’è qualcosa nella tua qualità di vita che sta cambiando e sono preoccupato’.  Messaggi di questo tipo sono percepiti come meno accusatori e, quindi, più facili da accettare da parte di chi è in difficoltà. Attenzione però, perché è importante essere consapevoli che, in molti casi, chi soffre di anoressia ha una scarsa consapevolezza del proprio disturbo, mentre chi soffre di bulimia potrebbe essere più consapevole, ma anche provare una profonda vergogna nel parlarne o nell’ammettere il problema. Entrambi questi fattori possono rendere difficile accettare il supporto e la vicinanza degli altri. Non bisogna scoraggiarsi di fronte alla resistenza iniziale. Spesso, tra l’esprimere una richiesta di aiuto e ottenere una risposta positiva, possono passare mesi. È essenziale non arrendersi e continuare a comunicare la propria preoccupazione. Un messaggio ha ancora più forza quando proviene da una rete di supporto: non solo dalla madre, che rischia di essere percepita come ‘eccessivamente apprensiva’, ma anche dal padre, dai fratelli, dagli insegnanti, dagli allenatori o da altre figure di riferimento. Questa coralità di voci che esprime un sincero ‘io vedo che qualcosa non va’ è spesso il mezzo più efficace per spingere una persona a intraprendere un percorso di cura. Con pazienza, costanza e un approccio empatico, si può fare una grande differenza nel supportare chi vive un disturbo alimentare”.

Il fenomeno dei DCA sta assumendo proporzioni sempre più vaste, e gli ultimi numeri diffusi parlano di oltre 3 milioni di persone che ne soffrono in Italia, di un esordio sempre più precoce tra le fasce più giovani della popolazione, con un’incidenza preponderante sulla popolazione femminile. Quali sono le principali cause alla base di queste patologie?

“I disturbi alimentari non hanno mai una singola causa: questo è un concetto fondamentale da comprendere e trasmettere a chiunque desideri approfondire il tema. In passato, si sono commessi gravi errori attribuendo tali disturbi a fattori univoci, come madri troppo apprensive, famiglie problematiche, modelli televisivi che esaltano la magrezza o ideali sociali irraggiungibili. Tuttavia, nessuna di queste spiegazioni, presa singolarmente, è sufficiente per spiegare l’insorgenza di un disturbo alimentare. La realtà è molto più complessa: questi disturbi nascono dall’interazione di molteplici fattori di rischio che, insieme, creano una situazione predisponente. Tra i fattori genetici e biologici, possiamo individuare una predisposizione familiare o ereditaria, che aumenta la vulnerabilità di una persona. Il temperamento individuale, come un perfezionismo eccessivo o la difficoltà a gestire le emozioni, rappresenta un ulteriore elemento critico. Eventi traumatici, come abusi fisici o emotivi, possono contribuire in maniera significativa. Sul piano familiare, una comunicazione poco assertiva o l’incapacità di stabilire limiti chiari possono influire negativamente. Anche l’ambiente sociale gioca un ruolo rilevante. I giudizi e le prese in giro da parte dei pari, specie su aspetti legati al corpo o al cibo, possono intaccare profondamente l’autostima. A ciò si aggiungono i fattori culturali e sociali, come la pressione esercitata dai media e dai social network, che spesso promuovono ideali di bellezza irraggiungibili. L’ossessiva attenzione verso la magrezza o la proliferazione di contenuti legati al fitness contribuiscono a creare un contesto in cui il corpo viene percepito come un elemento da controllare a tutti i costi. Tutti questi aspetti, presi singolarmente, non bastano a scatenare un disturbo alimentare. È la combinazione unica e complessa di questi fattori che può portare una persona a sviluppare la malattia”.

Dottore, le strutture specializzate cui si può fare riferimento, secondo lei, sono sufficienti e, più in generale, il sistema è all’altezza di quella che sembra quasi una nuova sfida dei nostri tempi?

Le strutture sanitarie in Italia risultano gravemente insufficienti per affrontare i disturbi alimentari, e questa carenza si manifesta a tutti i livelli. Già a partire dal livello ambulatoriale, sarebbe necessario disporre di centri organizzati secondo un modello multidisciplinare, in cui ogni paziente venga seguito da un’equipe composta almeno da un medico, un nutrizionista e uno psicologo. Tuttavia, anche questo livello di base è spesso inadeguato, e la situazione peggiora ulteriormente per quanto riguarda i livelli successivi di cura, come i centri di terapia diurna (day hospital o MAC), i reparti ospedalieri per ricoveri specifici e le strutture residenziali specializzate. Sebbene si parli spesso della carenza di strutture residenziali, che sono cruciali per i casi più gravi, va sottolineata anche l’insufficienza di quelle di base. Molti disturbi alimentari, se trattati tempestivamente attraverso un’efficace cura ambulatoriale, potrebbero non evolvere in forme più gravi, riducendo così la necessità di ricorrere a ricoveri intensivi o terapie residenziali. Un problema fondamentale che ostacola il miglioramento dell’assistenza è il persistere di un pregiudizio culturale sui disturbi alimentari. Esiste una visione distorta che oscilla tra due estremi: da un lato, l’idea che si tratti di semplici ‘capricci adolescenziali’ che richiederebbero solo un approccio moralistico e poco empatico; dall’altro, la convinzione che siano patologie gravissime, inguaribili e quasi senza speranza. Entrambi questi punti di vista sono lontani dalla realtà e contribuiscono a una scarsa considerazione del problema, che si traduce in investimenti insufficienti. È necessario riconoscere i disturbi alimentari come patologie gravi, complesse e ad alta mortalità, al pari delle malattie oncologiche. Per queste ultime, l’importanza di intervenire è chiara e indiscutibile, e di conseguenza ricevono adeguati investimenti in risorse e strutture. Allo stesso modo, anoressia, bulimia e binge eating disorder (BED) meritano pari attenzione e impegno per garantire cure efficaci e tempestive. Solo attraverso un cambiamento culturale e un maggiore investimento in strutture e servizi dedicati sarà possibile affrontare adeguatamente queste patologie, riducendo la sofferenza e il rischio di complicazioni per chi ne è colpito”.

Dello scorso marzo il progetto dei laboratori creativi, a novembre, poi, è arrivata la campagna “Non è il cibo il mio disturbo alimentare”, con lo scopo di creare una nuova narrazione e a sfatare gli stereotipi che accompagnano questa problematica. Quanto conta affrontare il tema dei DCA con iniziative come queste?

“È fondamentale trasmettere il messaggio che un disturbo alimentare non si riduce semplicemente a mangiare troppo, troppo poco o a pesare tanto o poco. Sebbene l’alimentazione e il peso rappresentino gli aspetti più visibili e sicuramente importanti da riconoscere e trattare, ciò che sta alla base di questi segni visibili, come il funzionamento mentale, emotivo, il temperamento e il carattere, costituisce il nucleo fondamentale per un trattamento efficace. Proprio per questo motivo, non ha senso pensare di affrontare un disturbo alimentare esclusivamente con un intervento nutrizionale, per quanto esso sia essenziale. È indispensabile che tale intervento venga sempre associato a un percorso psicologico, eventualmente psichiatrico, e a un trattamento medico adeguato. In questo contesto, iniziative che sensibilizzino l’opinione pubblica sugli aspetti legati al pensiero e alle emozioni, e non solo all’alimentazione, rivestono un’importanza cruciale per favorire una comprensione più completa e un approccio terapeutico realmente efficace”.

In occasione della presentazione a Milano della campagna lei ha parlato della “utilità di un approccio che vada al di là del rapporto con il cibo” nel trattamento dei DA, citando poi una parola chiave utilizzata da Ambra Angiolini che ha fatto riferimento alla “gentilezza”, nonché ai concetti di patience and persistance dello chef Thomas Keller. Ci spiega?

“La parola ‘gentilezza’, richiamata da Ambra durante l’incontro di Milano, rappresenta uno dei pilastri fondamentali nell’approccio alla cura dei disturbi alimentari. Per troppo tempo si è pensato che questi problemi fossero semplici ‘capricci adolescenziali’, trattandoli con metodi d’urto: si cercava di spaventare la persona con frasi come ‘se continui così, morirai’, oppure di scuoterla dicendo di smettere di fare ‘sciocchezze’. In realtà, è cruciale comprendere che il disturbo alimentare richiede un approccio basato sulla comprensione e sulla delicatezza. Chiunque si trovi ad avere un ruolo diretto o indiretto con la persona che soffre – familiari, amici, operatori sanitari, insegnanti, compagni di scuola – deve agire con gentilezza. Questo significa adottare un metodo di cura e comunicazione che riconosca la sensibilità della persona e il fatto che, spesso, chi soffre di un disturbo alimentare non è pienamente consapevole di ciò che gli accade. In molti casi, come nella bulimia, prova un profondo senso di vergogna. È quindi fondamentale trasmettere un messaggio privo di giudizio, gentile e duraturo. Tra l’insorgere dei sintomi e la richiesta di aiuto possono trascorrere mesi, se non anni. Ecco perché, accanto alla ‘gentilezza’, voglio associare altre due parole citate dal famoso chef Thomas Keller: ‘pazienza’ e ‘perseveranza’. Curare un disturbo alimentare non è un processo breve: non si può pensare di risolverlo in tre mesi. Servono anni, sia per affrontare il disturbo sia per far sì che la persona accetti di ricevere aiuto. La pazienza deve andare di pari passo con il rispetto e la totale assenza di giudizio. È fondamentale non arrendersi mai, nemmeno di fronte alla sensazione che ogni sforzo sia vano. Spesso ci si trova a piantare un seme, con l’impressione che non germoglierà mai. Eppure, quel primo germoglio, che potrebbe spuntare dopo mesi o anni, rappresenta l’inizio di un percorso di crescita. Da quel germoglio nasce una piantina che, con il tempo e le giuste cure, potrà trasformarsi in un albero robusto: una persona che, superato il disturbo alimentare, riprenderà il proprio cammino verso un futuro da adulto forte e consapevole. La chiave è non mollare mai”.

Redazione Agenfood

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Agen Food è la nuova agenzia di stampa, formata da professionisti nel campo dell’informazione e della comunicazione, incentrata esclusivamente su temi relativi al food, all’industria agroalimentare e al suo indotto, all’enogastronomia e al connesso mondo del turismo.

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